Avere un partner alcolista: eccessivo coinvolgimento o co-dipendenza affettiva?

L’alcolismo è una malattia riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

La dipendenza alcolica è caratterizzata da un comportamento ossessivo di ricerca compulsiva di bevande alcoliche e da assuefazione e tolleranza (per raggiungere un determinato effetto desiderato dall’individuo è costretto a bere quantità sempre maggiori di bevande alcoliche). Anche per l’alcol come per qualunque tossicodipendenza, la brusca interruzione del consumo di alcol causa la sindrome da astinenza caratterizzata da tachicardia, tremori, nausea e vomito, agitazione, allucinazioni, convulsioni.

L’alcolismo  non è un vizio, non è una debolezza di carattere, non è una questione di essere una cattiva persona, ma è una malattia che conduce la persona a perdere il controllo sul bere, a diventarne succube, ad assumerne sempre di più anche se consapevole delle conseguenze negative che questo comporta sia per sé che per chi gli è vicino. Il fallimento dell’alcolista rispetto all’illusione di poter essere più forte dell’alcol, lo porta a sperimentare continui momenti di frustrazione, colpa vergogna e solitudine. L’alcolismo è una malattia  che necessita di una cura medica specialistica. Come per il diabete o le cardiopatie o altro la persona deve essere accolta da personale esperto e qualificato che si prenda cura del problema. 

L’alcolismo è un problema che interessa non solo chi beve ma anche chi gli sta vicino.

Avere un partner alcolista  porta a vivere nell’incertezza, nell’ansia continua, nella preoccupazione  rispetto alla sua salute, alla sua capacità di controllarsi e di riprendersi, alla preoccupazione per i figli se ci sono.

Si può cercare di capirlo senza giudicare o accompagnarlo nel prendere consapevolezza di avere un problema e invitarlo a prendere il contatto con una struttura  o con un terapeuta.

Ma questo non è per nulla facile!

Capiterà più facilmente di provare rabbia; sarà quasi inevitabile  andare dietro al suo umore variabile, a trascurare  i propri bisogni e a sentirsi impotenti a tal punto da sperimentare una sensazione angosciante di vuoto, vergogna, impotenza, solitudine e tristezza. Sarà normale ritrovarsi  a controllare ogni suo spostamento, ogni posto dove potrebbe aver nascosto una bottiglia.

Per mantenere “lucidità” è  importante non rimanere da soli. Prendersi del tempo e provare a confrontarsi con persone che lavorano con questa malattia per informarsi, per trovare conforto, per lasciare gestire a qualcun altro, per prendere la giusta distanza. Solo in una situazione di maggiore distacco sarà possibile essere d’aiuto e prendere le giuste decisioni.

Le difficoltà a volte non riguardano solo l’accettare di non potercela fare da solo nell’ aiutare il proprio partner alcolista. Può succedere infatti di sperimentare una sensazione di invischiamento eccessivo, una  necessità di “doverlo salvare”, di doverlo controllare in modo ossessivo, di far fatica a pensare che non possa fare a meno di voi.

Quando aiutare il proprio partner ad  uscire dallo spirale dell’alcol diventa una missione di vita è possibile che ci sia codipendenza con lui/lei.

La codipendenza affettiva è una sindrome in cui esiste una connessione patologica tra una persona che mostra un bisogno estremo di dipendere (da persone o sostanze) e un’altra che ha bisogno di esercitare il suo controllo e il suo dominio per sentirsi utile, amato e per non pensare alle proprie fragilità .

Queste le principali caratteristiche dei codipendenti

  • concentrano la loro vita sugli altri
  • la loro vita dipende dagli altri
  • cercano la felicità fuori da sé
  • aiutano gli altri invece che se stessi
  • desiderano la stima e l’amore degli altri
  • controllano i comportamenti altrui
  • cercano di cogliere gli altri in errore
  • anticipano i bisogni altrui
  • sono attratte dalle persone bisognose d’aiuto
  • attribuiscono agli altri il proprio malessere
  • si sentono responsabili del comportamento altrui
  • sopportano sempre più comportamenti altrui che non avrebbero sopportato in precedenza
  • avvertono sintomi d’ansia e depressione
  • hanno una paura ossessiva di perdere l’altro
  • sviluppano sensi di colpa per i compartamenti sbagliati dell’altro
  • provengono spesso da famiglie con esperienza di codipendenza

Le persone codipendenti sono persone che hanno vissuto in un contesto traumatico (abusi e maltrattamenti, traumi precoci per la perdita di un genitore, figure di riferimento con problematiche fisiche o psichiche o che fanno uso di alcol e di sostanze stupefacenti) che di conseguenza induce la persona a farsi carico di enormi responsabilità che non le competono in una fase precoce di sviluppo. Quindi la persona si responsabilizza eccessivamente, si cuce addosso il ruolo di crocerossina o di salvatore. In realtà questo ruolo non è autentico perchè se il partner guarisse il salvatore/la crocerossina non si sentirebbero più necessari. La persona co-dipendente ha imparato che per essere amata deve sacrificare se stessa e prendersi esclusivamente cura dell’altro.

Questo meccanismo si riperpetuerà come un copione nelle sue relazioni future.

La codipendenza si sviluppa in entrambi i sessi, ma per stereotipi culturali e sociali è più frequente nel genere femminile.

Dalla codipendenza è possibile uscirne attraverso un percorso di psicoterapia che aiuti a prendere consapevolezza di bisogni reali e attivando modalità più funzionali  di relazione. Di conseguenza anche la relazione di coppia cessa di essere “in stallo” permettendo ad entrambi i partner di ridefinire i propri ruoli e le proprie problematiche.

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Obesità: quando le cause sono psicologiche

L’obesità è determinata, sia nell’adulto che nel bambino, dall’interazione di diversi fattori di tipo genetico, familiare e socio ambientale. Sicuramente ci troviamo di fronte a persone che mangiano seguendo un’alimentazione scorretta e praticando poca o nessuna attività fisica.

Ma se domandiamo a chi è un po’ troppo in carne perché mangia più del necessario, con buona probabilità risponderà: “Perché ho fame“. E’ chiaro che si tratta di una non risposta. Non a caso ci viene subito da farci un’altra domanda. Ci troviamo davvero di fronte a una fame fisiologica, in cui l’organismo, in debito di carburante, ne cerca altro per mantenere attive le proprie funzioni? Oppure abbiamo a che fare con una fame di tipo mentale, dove l’ingestione di cibo equivale a una automedicazione, a una cura self-help da bisogni non soddisfatti?

Noi sappiamo che corpo e mente non sono due cose separate, ma le due facce della stessa medaglia chiamata persona.

E  il corpo spesso arriva a farsi carico di un peso che la persona non riesce a vivere ad altri livelli.

Attraverso il sintomo, il corpo esprime un disagio dell’anima. Parlando il linguaggio del corpo, il sintomo rende visibile ai nostri occhi un problema che sta da un’altra parte. Un po’ come una spia che si accende sul cruscotto della nostra auto, il sintomo ci avverte di fare attenzione perché il motore, oppure, la batteria o altro non funzionano più come dovrebbero.

Sarebbe un po’ riduttivo pensare di risolvere il problema cambiando la centralina o ricaricando la batteria, oppure peggio resettando la spia. Quello che è importante è chiedersi se il guidatore stia andando realmente nella direzione che vuole lui, o se sia costretto, dagli eventi della vita, ad andare altrove.

Magari sa  bene dove vuole andare e si prende  la libertà anche di cambiare strada. Ma può capitare cambiando direzione che si ritrovi in una strada senza uscita per cui è necessario ritornare indietro.

Questo è il significato del sintomo: un avvertimento a rivedere i nostri piani di viaggio, perché, a quanto pare, stiamo andando nella direzione sbagliata. Ma il sintomo è anche un vantaggio, perché porta equilibrio nella vita della persona (anche se si tratta di un equilibrio disfunzionale, che può durare poco).

Anche il sovrappeso è un sintomo.

Il significato del sintomo è da ricercare nella singola persona. Nella sua vocazione (la destinazione del guidatore, nello specifico contesto di vita che sta vivendo, nella sua tipica modalità di viverlo e nella sua natura. Solo così, il sovrappeso (e il sintomo in generale) assume un senso specifico. Quindi, ad esempio, uno può ingrassare, ingrandire la propria forma per occupare più spazio nel contesto familiare o lavorativo. Una donna può prendere peso in menopausa, per recuperare, attraverso “il pancione”, la facoltà di procreare ormai perduta. Oppure si può prendere peso per crearsi una morbida barriera contro gli urti della vita. Oppure la paura delle relazioni spinge a mettere distanza con il peso.  

Le cause del sovrappeso stanno nella persona. Ed è lì che vanno ricercate attraverso un sostegno psicologico e se necessario attraverso una psicoterapia che entra nel profondo. Le diete vanno benissimo, ma più che di dieta dimagrante ha senso parlare di educazione alimentare. Infatti, imporsi una disciplina ferrea ci limita tanto quanto non averne alcuna, e i limiti, si sa, prima o poi vengono superati.

E’ un po’ come trovare il colpevole, ma quello vero! Perché se non troviamo la causa del sintomo, del problema, questo prima o poi si ripresenterà. E magari, purtroppo, in forma peggiore.

Psicofarmaci: uso e dipendenza

La dipendenza da psicofarmaci è una seria forma di dipendenza psico-fisica provocata e tenuta attiva dall’assunzione ripetuta e quantitativamente eccessiva degli stessi.

In commercio non vi sono medicinali che fanno solo bene ed altri che fanno solo male; è l’uso (secondo tempi e modalità) che di essi ne viene fatto a creare serie conseguenze psico-fisiche.

Se infatti vengono utilizzati sotto prescrizione e controllo medico, certi farmaci e psicofarmaci, interagendo con determinate sostanze e neurotrasmettitori dell’organismo, riescono a stimolare o calmare sia la parte mentale che quella fisica della persona, in modo temporaneo, ma propositivo.

Le problematiche psicologiche come ansia, depressione, psicosi, sono malattie del cervello, che è un organo del corpo umano come tutti gli altri organi, e, come questi, può e deve essere curato con farmaci specifici ed efficaci. Il cervello può essere considerato come un’enorme e complessa rete elettrica al cui interno si possono creare dei cortocircuiti. Dobbiamo pensare ai farmaci come a nastro isolante in grado di riparare lentamente i circuiti danneggiati che impiegano almeno un mese per cominciare a funzionare di nuovo. In base alla malattia, il nastro isolante non va rimosso (cioè la cura va continuata!) per un tempo variabile, in genere mesi, in modo da consentire una riparazione stabile ed efficace dei “cavi elettrici” danneggiati.

Se invece vi è un iper utilizzo non controllato tali medicinali possono provocare la formazione di una vera e propria dinamica di dipendenza psico-fisica, con tutte le sue gravi caratteristiche sintomatologiche sia a livello interno, che esterno.

I RISCHI

L’utilizzo eccessivo di Farmaci e Psicofarmaci può creare pericolosi schemi comportamentali, come ad esempio prendere sistematicamente sonniferi per dormire e/o stimolanti per alzarsi, attivarsi o concentrarsi, o ancora tranquillanti per rilassarsi a fine giornata.

Tale uso schematico diventa progressivamente sempre più compulsivo, ovvero ripetitivo, innescando sintomi tipici della dipendenza come: Tolleranza, cioè la necessità di alzare le dosi farmacologiche per continuare a sperimentare i medesimi effetti; Craving, ovvero una serie di forti impulsi e pensieri fissi verso il come e quando consumare i farmaci e verso tali stesse sostanze; ed infine Astinenza, cioè la comparsa di un gruppo di sintomi psicologici e fisici fortemente negativi in corrispondenza alla sospensione, più o meno volontaria, dell’assunzione dei medicinali stessi.


A livello psicologico
 un uso ripetuto ed eccessivo di medicinali o la loro sospensione repentina può portare i medesimi segni del disturbo che si cerca di attenuare (ad esempio con il forte consumo di Ansiolitici si può presentare intensa ansia). La possibilità e l’entità della Dipendenza da Farmaci e Psicofarmaci ha uno stretto legame anche con la persona che ne fa uso e con la sua particolare situazione personale, interpersonale, contestuale, lavorativa, socio-familiare, etc.

La dipendenza è ulteriormente tenuta attiva da personali convinzioni, eventuali momentanei miglioramenti e forte timore di perdere tali passi in avanti. Anche questi sono ulteriori fattori che spingono l’individuo verso il riutilizzo del farmaco.

In realtà i farmaci e gli psicofarmaci hanno una azione limitata nel tempo e che agisce sui sintomi della patologia e non sulle sue vere basi mentali interne, sulle quali essa nasce e si sorregge.

In altre parole, mediando precise sostanze dell’organismo, non eliminano il disturbo per sempre, ma attutiscono i suoi sintomi, certe volte facendoli completamente regredire. I sintomi però alla sospensione o all’interruzione dell’assunzione ricompaiono (certe volte anche in forma maggiore).

Gli psicofarmaci agiscono sul sintomo di un problema , ma non sulla sua motivazione originaria e disfunzionale e sul suo schema psichico e comportamentale

Per questo è fondamentale l’integrazione dei farmaci con un mirato supporto psicologico, laddove la sinergia tra farmaco ed aiuto psichico si dimostra altamente efficace per superare il disturbo alla radice.

Se tuo figlio assume droga..

I dati relativi al 2018 sul consumo di droghe sono allarmanti in quanto si assiste a un aumento di morti per overdose proprio fra i più giovani, gli adolescenti.

Spesso, proprio per la paura che generano queste notizie, si sceglie la strategia del “tabu” ovvero non se ne parla in famiglia, si allontana l’argomento come una sorta di tentativo di ridurre la paura attraverso la negazione del rischio.

In realtà, oggi è qualcosa di estremamente diffuso e soprattutto molto più accessibile di un tempo, presente in forme nuove, non conosciute e talvolta anche molto più potenti e con effetti collaterali e negativi molto più rapidi, rispetto alle sostanze tipicamente e culturalmente conosciute.

I SEGNALI

Sia per l’immensa vastità delle sostanze a oggi disponibili, per molte delle quali non si conoscono ancora gli effetti, sia per le differenze individuali negli effetti, non è possibile definire segnali certi e univoci.

A livello generale si può notare un cambiamento nel comportamento del figlio, riduzione del rendimento o fallimento scolastico, svogliatezza e tendenza a marinare la scuola, perdita di interesse per attività abituali come sport o hobby.

Perdita delle solite amicizie e l’improvvisa frequentazione di un gruppo nuovo, con cambiamento nel modo di vestire, di relazionarsi in famiglia e di vivere le situazioni familiari con insolito sospetto.

Sono frequenti richieste di denaro accompagnate da scuse costruite perfettamente e difficilmente smascherabili, scomparsa di oggetti di valore da casa, scarso impegno nelle attività, difficoltà a concentrarsi, nel sonno ed estrema stanchezza fisica e alterazione dell’appetito.

Comune anche l’insorgenza di altri comportamenti insoliti, più attività legata ai social, ai video-games e uso di alcol.

Sul piano emotivo può apparire maggiormente aggressivo  irritato e irascibile con cambi repentini di umore, insofferenza, indifferenza verso gli altri e poco disponibile alla collaborazione e all’aiuto anche in faccende abituali.

Sono ovviamente solo alcuni dei segnali e soprattutto tutti riconducibili ad altro, quindi ci vuole estrema cautela e attenzione prima di incorrere in giudizi e sentenza errate.

LE POSSIBILI CAUSE

Non è facile definire le cause. Tra le più intuibili ci sono la facilità con cui è possibile reperire la sostanza, la curiosità nel provare qualcosa di nuovo e nel vedere gli effetti, la voglia di divertirsi, il desiderio di raggiungere uno stato di “sballo” per garantirsi una serata perfetta.

Si ha poi l’influenza del gruppo e la necessità di essere accettato, il desiderio di trasgredire le regole familiari come forma di sperimentazione della propria autonomia.

Più profondamente si osserva una sofferenza e una difficoltà a definire la propria autonomia, personalità e identità, accettando il cambiamento della crescita e la nuova immagine di sé.

Spesso i ragazzi si sentono incompresi, soli, spaventati e sofferenti e la droga risulta una forma di consolazione ottimale e una via per non pensare, per fuggire e stare meglio e aumentare la propria autostima. L’ambiente familiare e i modelli offerti giocano poi un ruolo importante.

È una forma di dipendenza che racchiude in sé tanti significati che non è possibile definire a priori ma bisogna valutare la singola sofferenza.

COME COMPORTARSI?

Infine la parte più complessa per un genitore, il momento dell’azione dopo la scoperta. Anche qui non c’è un comportamento uguale per tutti ma un percorso da costruire con il singolo figlio.

In generale, in caso di sospetto è bene non usare all’insaputa del figlio trucchetti e test per scoprire se realmente usa sostanze, primo non sono fonte di certezza assoluta, e secondo se il ragazzo lo scopre è molto difficile ricucire un dialogo con il rischio di ulteriore allontanamento.

Come prima cosa è bene informarsi sull’argomento così da arrivare preparati e maggiormente sicuri al confronto con il figlio. E’ importante non assumere un tono accusatorio e di rimprovero perchè genererà ulteriore chiusura nel ragazzo che si sentirà incompreso, sbagliato, solo e non si otterrà una sua confidenza.

Scegliere il momento più giusto per affrontare l’argomento, in cui si ha la possibilità di dedicarsi totalmente al ragazzo, senza altri impegni nell’immediato.

Mostrarsi accoglienti, preoccupati, giustificando le proprie parole e aprendosi al dialogo e all’ascolto palesando i rischi e le conseguenze anche gravi.

Pensare di rivolgersi a uno specialista, intraprendendo prima un percorso genitoriale e poi col tempo avvicinare il figlio, rispettando i suoi tempi.

Chiedersi perché e incolparsi ingiustamente come genitori è controproducente, quindi è importante cercare una via di risoluzione che migliori anche l’ambiente famigliare e aumenti le abilità genitoriali meno forti, la capacità empatica e di comprensione del vissuto del figlio, rispettando la sua unicità e accompagnandolo nel difficile momento della crescita.

Perchè iniziare una psicoterapia

Nel corso della vita a chiunque può capitare di sperimentare momenti di difficoltà che creano sofferenza e prendono pieghe “scomode” invadendo le realtà relazionali e familiari, scolastiche e lavorative, impattando nella vita di tutti i giorni e limitando la serenità e la tranquillità. In questi momenti è come se si inceppasse qualcosa, come se quello che ha funzionato non va più bene.

Un segnale d’allarme può prendere varie forme: uno stato costante di allarme, di tensione che affatica le giornate e non fa dormire la notte. Un dolore allo stomaco che non passa e che sembra resistere a tutte le cure mediche. Uno stato di insoddisfazione e di mancanza di senso che toglie la voglia di alzarsi al mattino. Un’emozione di rabbia che si fa sentire in modo potente, tanto da diventare distruttivo e autolesivo. Un senso di solitudine profondo, che si fa doloroso con il passare del tempo. Un rapporto con il proprio corpo e con il cibo fatto di frustrazione e confusione.

Sono questi alcuni dei momenti in cui si affaccia alla mente la possibilità di chiedere aiuto a un terapeuta.

Ma perchè la psicoterapia?

Psicoterapia etimologicamente significa la cura dell’anima. Quel tipo speciale di cura dell’anima che, attraverso strumenti psicologici quali il colloquio e la relazione, vuole favorire il cambiamento consapevole dei meccanismi psicologici alla base della sofferenza, nelle sue molteplici forme, che sia ansia, depressione, una fobia, un disturbo alimentare, la mancanza di un senso e di un significato o qualsiasi altro sintomo.

Nella stanza della terapia, c’è uno spazio di relazione e di ascolto interamente dedicato alla persona  e a ciò di cui hai bisogno. In questo spazio, tante cose possono accadere…

Si può scoprire che quello stato di ansia che affatica le tue giornate è uno stato che copre altre emozioni. Quando non siamo abituati a farle fluire in noi, un segnale che ci invita a riconoscere qualcosa che dentro di noi chiede di avere voce e legittimazione.

Si può esplorare dentro una relazione quella contrazione dolorosa allo stomaco e scoprire cosa vuole raccontare: spesso stati emotivi e significati che non riescono a trovare un posto nella nostra mente, perché difficili da accogliere o semplicemente perché nessuno ci ha mai insegnato ad ascoltarci e a dare valore a ciò che sentiamo.

Si può imparare ad ascoltare e dare un significato a quel senso di insoddisfazione, a quella tristezza o a quella rabbia che in certi momenti si fanno sentire in modo doloroso e trovare nuovi modi per trasformare ciò che ci fa soffrire.

Attraverso quella palestra di relazione e di contatto con se stessi che è la terapia, è possibile quindi ridurre le cause della nostra sofferenza e promuovere quell’equilibrio della mente e del cuore che può aprirci la possibilità di andare in giro per il mondo con più risorse e consapevolezza.