La fame nervosa: l’emotional eating

Non sempre mangiamo perché siamo davvero affamati.

Molti di noi si rivolgono al cibo per trovare conforto, alleviare lo stress o per premiarsi.

La sensazione di fame anziché derivare da un reale bisogno fisiologico, ha origine da una condizione psicologica ed emotiva particolare.

Sentimenti come la tristezza, la rabbia, la delusione o la solitudine possono generare uno stato di frustrazione talvolta difficile da gestire e da sopportare portando alcune persone a vedere il cibo, soprattutto quello più gustoso e sostanzioso, come una soluzione facile ed immediata per sperimentare uno stato di soddisfazione che però è solo apparente.

Infatti il senso di benessere e di pienezza successivo che ne deriva è illusorio poiché l’appagamento provato non deriva dalla soddisfazione di una vera esigenza di cibo.

I sentimenti negativi, anziché essere affrontati e vissuti, vengono trasformati in voglia di cibo attraverso un meccanismo inconsapevole che sposta una carenza di tipo psicologico sul versante “fisico”.

Questo accade perché il più delle volte non siamo allenati a riconoscere le emozione sottostanti a questo meccanismo e perché, anche quando siamo consapevoli del nostro stato d’animo spiacevole, è molto faticoso stare a contatto con quelle parti di noi che ci fanno soffrire.

Purtroppo però, dopo aver mangiato, ci si sente peggio: non solo rimane il problema emotivo ma subentra anche un profondo senso di colpa per l’eccesso di cibo.

La fame nervosa può manifestarsi attraverso stili alimentari ed emozioni scatenanti differenti, a seconda della situazione che la persona vive e della tonalità emotiva che la caratterizza.

  • fame nervosa legata alla tristezza: il cibo viene utilizzato come conforto di fronte ad uno stato d’animo di dispiacere e desolazione. Mentre ci si intorpidisce con il cibo, si evitano momentaneamente le emozioni difficili che non si vogliono sentire;
  • fame nervosa legata alla solitudine: il cibo diventa una vera e propria compagnia e viene usato per compensare una mancanza come un partner, un amico o semplicemente qualcuno con cui condividere il proprio stato d’animo;
  • fame nervosa legata all’ansia: le persone ansiose cercano di alleviare i sintomi connessi all’ansia come la sudorazione, il battito accelerato, il respiro affannoso, l’irrequietezza attraverso il cibo, nel tentativo, purtroppo vano, di distogliere l’attenzione da ciò che provoca agitazione;
  • fame nervosa legata alla rabbia: in questi casi mangiare in modo vorace può essere sia un modo per scaricare le tensioni provate, sia un’alternativa all’espressione verbale per esternare il proprio disappunto;
  • fame nervosa legata alla noia: il cibo diviene un vero e proprio riempitivo di un momento monotono, un modo per occupare oltre alla bocca, anche il proprio tempo o l’occasione per interrompere un’attività noiosa;
  • fame nervosa legata alla stanchezza: periodi particolarmente stressanti o ritmi di vita molto frenetici possono portare a vedere il momento del pasto come unica occasione della giornata per potersi rilassare, concedendosi tutto ciò di cui si ha voglia;
  • fame nervosa come “celebrazione” di un accadimento: l’abbondanza di cibo può diventare un modo per festeggiare un evento o un fatto piacevole, o essere utilizzato come premio o ricompensa personale. In questi casi il soggetto fatica a vivere in modo autentico le proprie emozioni positive e utilizza il cibo come strumento per amplificare ed esasperare il proprio sentire.

Queste emozioni sono spesso sconosciute: si avvertono, ma si fa fatica a nominarle. La loro variabilità è ampia e connessa alla storia individuale e direi anche familiare della persona stessa.

La cura della fame nervosa richiede un percorso che affronti più aspetti. Da un lato è fondamentale riconoscere gli stati emotivi ed imparare a dargli un nome, rendendoli identificabili.  Attraverso questo processo è possibile cominciare ad orientarsi in modo più flessibile rispetto ai propri stati d’animo, diversificando i comportamenti. In secondo luogo, è importante ampliare l’orizzonte delle possibilità esistenziali, aumentando la libertà delle proprie scelte.

Prima di mangiare prova a farti queste domande:

  1. Ho davvero fame? Se la risposta e no, allora procedi ad analizzare cosa sta davvero succedendo dentro di te.
  2. Che emozione stai provando? Se hai capito di non aver davvero fame, questa è un’opportunità per scoprire cosa ti spinge a mangiare. Sei turbato o stressato? Sei annoiato o arrabbiato? Quale emozione ti spinge a ricercare il cibo?
  3. Di cosa hai veramente bisogno? Sulla base delle tue emozioni, pensa a cosa ti aiuterà a risolvere il tuo problema. Ad esempio, se sei stressato, ciò di cui hai veramente bisogno è un modo per sfogarti, non un biscotto. Pensa a modi per alleviare lo stress, magari esci con un amico/a o vai a fare due passi al parco.

Spesso fare questo non è semplice ed essere supportati in un percorso di sostegno psicologico aiuta a raggiungere il livello di consapevolezza necessario ad apportare i giusti cambiamenti.

Non posso vivere nè con te nè senza di te….la dipendenza affettiva

In una RELAZIONE SANA gli aspetti di dipendenza si bilanciano sempre con la capacità di scelta dell’individuo.

Piacere, arricchimento e crescita viaggiano reciprocamente, in entrambe le direzioni

Nella DIPENDENZA AFFETTIVA  invece uno dei partner – una volta più spesso era la donna ma adesso capita anche agli uomini – tende a “funzionare” in modo prevalente o in certi casi esclusivo in modalità dipendente. Chi si trova in questa posizione  perde quote sempre maggiori di potere personale, autonomia, indipendenza e libertà di scelta,

Chi è il  dipendente affettivo?

Prima di tutto è una persona che ricerca partner poco amorevoli. Si lascia sedurre da chi rappresenta in qualche modo il suo opposto, ossia da un soggetto che incarna un’immagine “forte”, di sicurezza.

Sceglie partner autoreferenziali, per non dire narcisisti che tendono a promettere tanto soprattutto all’inizio della relazione assolvendo a quella funzione salvifica che il dipendente cerca per ripercorrere un copione familiare al quale spera di dare un finale diverso, fatto di presenza e riconoscimento e non di vissuto abbandonico e di solitudine il più delle volte sperimentato durante l’infanzia.

Pur di non rivivere il sentimento il dipendente affettivo è disposto ad accettare di tutto  per  mantenere il rapporto.

E invece di riscattare la propria infanzia deprivata il dipendente affettivo si ritrova a riprodurre esattamente la propria storia affettiva legandosi a persone che non sono in grado di amarli

Il partner diventa il custode delle funzioni di autoregolazione dell’autostima e del contenimento degli stati d’ansia fino ad essere indispensabile per il mantenimento del senso d’integrità e coesione personale.

Se lui/lei se ne va io vado in pezzi.

Quando si perdono queste funzioni di autoregolazione, il dipendente affettivo entra nel panico e si tutela dalla possibilità di non vivere più questo disagio solo garantendosi la prossimità del partner.

Il partner diventa così fondamentale per mantenere l’equilibrio psichico. Non tollerandone la distanza rende molto difficile un’eventuale separazione ed elaborazione della perdita.


La persona dipendente si trova così a condurre una sorta di esistenza di servizio dal punto di vista affettivo, accettando e tollerando qualsiasi cosa venga dal partner, a volte anche lasciando innescare cicli di violenza


Questo è il paradosso tipico di ogni condizione di tossicodipendenza, dove si punta tutto per ottenere un certo tipo di risultato e ci si ritrova a vivere nella situazione esattamente opposta.

Il dipendente affettivo nutre l’illusione di aver trovato la figura salvifica che lo risolleverà dalla situazione depressiva di solitudine e abbandono nella quale si sente e finisce per diventare la persona più sola, abbandonata e deprivata che ci possa essere dentro una relazione, un po’ come accade all’eroinomane che cerca negli oppiacei una sedazione assoluta da ogni dolore finendo poi per essere travolto dai morsi terribili dell’astinenza.

Che si puo fare?

  • Imparare a vivere la solitudine come opportunità e momento di crescita
  • Accettare la propria storia di vita e familiare per non riprodurla.
  • Rivedere i propri miti sull’amore che salva e per il quale ci si sacrifica perché la realtà è  che nessuno salva nessuno e l’amore non c’entra niente con questo genere di visione

E’ difficile riuscire a fare tutto questo da soli.

Un percorso di psicoterapia è la strada da percorrere per uscire dalla dipendenza con l’aiuto e il sostegno necessario.

Mindful eating: i 9 tipi di fame

I motivi per cui iniziamo a mangiare sono diversi e non sempre coincidono con la fame fisiologica, cioè quella indotta dai complessi meccanismi di regolazione del sistema nervoso centrale deputati ad assicurare la costanza delle riserve di energia nel nostro corpo.

I tipi di fame sono 9 e conoscerli può aiutarti a diventare più consapevole del tuo comportamento alimentare e degli automatismi verso il cibo. (Jan Chozen-Bays – 2009)

  1. Fame degli occhi

Gli occhi rappresentano un canale privilegiato attraverso cui lasciarsi sedurre dal cibo. Un cibo colorato o ben impiattato attrae così come spesso basta lavista di un piatto accattivante perché arrivi l’acquolina in bocca.

Per soddisfare la fame degli occhi esplora visivamente e a lungo un piatto prima di iniziare a mangiarlo

  • Fame del naso

L’olfatto ha un ruolo importante nella scelta di un cibo. Ci sono “profumi irresistibili” come quello della pizza appena sfornata o del caffè appena fatto.

Per soddisfare la fame del naso soffermati sull’aroma del cibo, prima di iniziare a mangiarlo

  • Fame delle orecchie

Ci sono suoni che stimolano curiosità e attrattiva verso il cibo come lo “scrocchiare” di una patatina o il rumore spumeggiante di una bibita fresca versata in un bicchiere.

Per soddisfare la fame delle orecchie fermati, chiudi gli occhi e ascolta con curiosità il suono del cibo mentre lo tocchi o lo mastichi

  • Fame del tatto

La sensazione che un cibo dà al tatto sfiorandolo con la punta delle dita o con le labbra permette di ampliare l’esperienza sensoriale implicata nell’atto del mangiare.

Per soddisfare la fame del tatto rallenta il tuo pasto. Utilizzando il tatto puoi aprirti alla possibilità di trasformare la tua esperienza alimentare in un momento più soddisfacente e appagante.

  • Fame della bocca

Che gusto hanno i cibi che mangi? Sei sicuro che ti piaccia veramente quel cibo? Spesso le scelte in termini di gusto sono il frutto di abitudini e convinzioni apprese che però possono cambiare nel tempo.

Per soddisfare la fame della bocca assapora piccole quantità di cibo attraverso una ingenua esplorazione gustativa.

  1. Fame dello stomaco

Ognuno di noi ha una capacità innata di riconoscere i segnali provenienti dallo stomaco. Ma può accadere che essi vengano confusi con altre sensazioni che afferiscono a questo organo come l’ansia e il nervosismo. Le emozioni hanno una componente fisiologica che spesso coinvolge questa parte del corpo.

Per riconoscere la fame dello stomaco non rispondere subito con il cibo quando avverti una sensazione di vuoto allo stomaco e mangia solo dopo aver preso consapevolezza di queste sensazioni

  • Fame cellulare

E’ questa la fame fisiologica che rappresenta il motivo principale per cui si mangia. Da piccoli eravamo in grado di riconoscere in modo più pulito la necessità di mangiare e di cosa il corpo avesse bisogno. Il tempo e i condizionamenti esterni hanno diminuito  questa abilità che può essere riscoperta, imparando a rimettersi in contatto con il proprio corpo.

Attraverso la meditazione sul respiro puoi imparare a disattivare il tuo pilota automatico, liberarti dai condizionamenti e accedere ad una nuova consapevolezza più sensibile ai segnali che il corpo manda, cambiando così le tue scelte alimentari.

  1. Fame della mente

Noi siamo fondamentalmente dei mangiatori ansiosi. Siamo sicuramente influenzati dalle mode alimentari, dalle diete del momento, da articoli allarmistici in fatto di alimentazione.  Nel momento in cui imponiamo a noi stessi delle regole molto rigide e pretendiamo di seguirle alla perfezione creiamo le basi per i nostri conflitti con il cibo che possono predisporci alle ossessioni alimentari.

Prova a non giudicare il tuo cibo, a non etichettarlo come giusto o sbagliato, poni invece più attenzione ad altri aspetti dell’alimentazione: ai segnali di fame e sazietà, alle sensazioni percepibili attraverso i sensi. Lascia andare i tuoi pensieri giudicanti e orienta la tua attenzione all’esperienza alimentare del qui e ora.

  1. Fame del cuore

Cosa mangiamo e quando lo mangiamo spesso sono connessi alle nostre emozioni. Le emozioni come la rabbia, la tristezza, l’angoscia producono sensazioni corporee intense spesso afferenti allo stomaco e all’apparato digerente che ci spingono a mangiare.  Ma la fame del cuore (la fame nervosa) non può essere soddisfatta dal cibo. Anzi ricorrere al cibo ti può far stare peggio perché ti rende consapevole di non essere riuscita a cogliere realmente i tuoi bisogni.

Se vuoi soddisfare la fame del cuore  è necessario trovare l’intimità, il conforto e la soddisfazione di cui il tuo cuore ha bisogno.

La mindful eating può insegnarti a riconoscere la tua fame e a dargli la risposta adeguata.

Insonnia e stress da quarantena

La quarantena sembra finita, gradualmente stiamo ritornando alla nostra vita e alle nostre abitudini ,ma  nonostante “la calma” della quotidianità facciamo fatica a dormire.

La chiamiamo insonnia e l’associamo genericamente alla difficoltà di addormentamento.

I disturbi del sonno però non sono rappresentati solo dal non riuscire a dormire, c’è infatti chi dorme per poche ore e si sveglia riposato, e chi viceversa ha molte ore di sonno e la mattina apre gli occhi come se non avesse riposato affatto.

I meccanismi dell’addormentamento e del mantenimento del sonno sono molti e facilmente influenzati da situazioni esterne, come appunto potrebbe essere lo “stress da quarantena”, ma anche da fattori interni al nostro organismo, risultato di cattive abitudini riguardo all’alimentazione, all’attività fisica ed ai ritmi di vita in generale.

Conoscere il tipo di insonnia ci aiuta a capire, ed eventualmente, provare a gestire al meglio il disturbo.

– Difficoltà di addormentamento: ci mettiamo a letto, ma il sonno non arriva;

– Risvegli notturni: ci svegliamo più volte durante la notte e fatichiamo a riprendere il sonno;

– Risvegli precoci: ci svegliamo alle 5 del mattino e non ci addormentiamo più.

– Sindrome delle gambe senza riposo: fastidio prevalente agli arti inferiori che viene alleviato solamente dal movimento, rendendo quindi difficoltoso l’addormentamento o il riaddormentamento dopo dei risvegli nel cuore della notte.

L’insonnia evolve parallelamente alla condizione di stress che l’ha innescata e può essere dunque transitoria, come quella da quarantena.

La reclusione ha eliminato i “sincronizzatori ambientali” ossia, gli stimoli che durante le 24 ore della giornata regolano alcune delle nostre funzioni biologiche.

Andare a lavoro, a scuola, litigare in ufficio, andare in palestra, fare shopping, vedere amici, andare al cinema di sera, al mare di domenica mattina, prendere i mezzi pubblici, sono tutte attività che regolano la temperatura corporea, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca e la produzione di ormoni.

Di contro, durante le giornate in casa si verifica una continua produzione di adrenalina per lo stress della gestione familiare, e dai continui pensieri allarmanti rispetto alla salute e al lavoro.

In altri termini, non abbiamo al momento una regolazione funzionale dell’organismo e il sonno da solo non riesce a riportare il corpo alla calma necessaria per l’addormentamento.

Cosa fare?

È difficile pensare che pur sentendoci apatici il sonno non ci venga incontro.

Restare fermi o sentirsi giù di morale non equivale ad essere “rilassati”, tutt’altro, l’umore basso è fonte di stress per il corpo.

La prima cosa da fare è eliminare il concetto secondo cui “se mi stanco durante il giorno poi dormo”, un po’ come fare attività sportiva la sera tardi: facendo mille cose aumenteremo l’adrenalina, muscoli e cervello si metteranno in azione per diverse ore, senza possibilità di “smaltimento” e… quindi niente sonno.

Eliminare pasti pesanti, consumo eccessivo di caffeina e alcool a cena: ricordiamoci che non dobbiamo attivarci, ma disattivarci.

Qualche suggerimento per staccare la spina e produrre meno adrenalina:

– Mantenere le abitudini di cura personale e alimentare;

– Concentrare le attività più pesanti nelle prime ore del mattino;

– Andare a letto e alzarsi sempre alla stessa ora;

– Assorbire il più possibile la luce naturale;

– Fermarsi un’ora al giorno per leggere, mangiare, stare con i bambini sul divano a vedere la tv o semplicemente ascoltare musica… spegnendo il cellulare o almeno silenziandolo;

– Cenare almeno due ore prima di andare a letto;

– Respirare con il diaframma e sentire il corpo;

– Assumere tisane con erbe rilassanti prima di andare a letto, possibilmente in silenzio e da soli;

– Spegnere la luce ed evitare maratone notturne di serie su Netflix e simili.

E se tutto questo non basta è possibile pensare alla possibilità di incontrare uno psicoterapeuta che ci aiuti.

Individuare e ridefinire  i pensieri e le emozioni che alimentano spesso inconsapevolmente la situazione di stress peggiorando l’insonnia aiuta ad interrompere quel circolo vizioso che ci fa sentire senza via d’uscita.

Evitando così che il disturbo del sonno da transitorio diventi ricorrente o peggio ancora cronico.

Quando il lavoro diventa dipendenza: essere un workaholic

La dipendenza da lavoro (workaholism o work addiction) è stata individuata nel 1971 dallo psicologo Wayne Oates. Consiste in atteggiamenti mentali e comportamenti specifici che influenzano il benessere psicofisico del lavoratore e le sue relazioni interpersonali.

Il workaholic, in genere, dedica gran parte della sua giornata al lavoro, in maniera del tutto volontaria, senza che ci siano pressioni da parte del capo o dell’azienda. Pensa di continuo alle scadenze, agli appuntamenti, alle attività che deve svolgere; si sente inquieto quando non lavora.

Ha sbalzi d’umore e può abusare di sostanze stimolanti (come la caffeina) o psicoattive, per mantenere i ritmi autoimposti. Il workaholic tende a trascurare le relazioni sociali con varie conseguenze a livello psico-fisico. Può infatti sviluppare la sindrome da burnout, disturbi d’ansia e iniziare a soffrire di scompensi cardiaci e squilibri alimentari. Le ripercussioni sono negative e si estendono al rapporto di coppia, alla vita familiare e sociale
La dipendenza da lavoro non è facilmente individuabile ed è un fenomeno ancora sottovalutato. In effetti, essendo collegato al lavoro e alla produttività sembra socialmente accettato, e addirittura visto come un mezzo di affermazione sociale che determina uno status.
Rispetto ad altre tipologie di dipendenze, chi si dedica “anima e corpo” al lavoro viene visto come uno “stakanovista”, quasi ammirato per la sua costanza. Una persona che lavora molto, anche quando in realtà non dovrebbe. Così il workaholic viene considerato come un individuo che “si impegna” ed è considerato positivamente, mentre i suoi lati di disagio vengono spesso sottovalutati.

Ci sono alcune caratteristiche che differenziano un lavoratore impegnato da un workaholic. Un conto, infatti, è lavorare troppo, un altro è “lavorare in modo compulsivo”. Nel primo caso si riesce a stabilire un confine tra vita professionale e vita privata, e ancora si apprezza la possibilità di godere del weekend per staccare, rilassarsi e dedicarsi ad altro. Nel caso del workaholic, invece, si viene completamente assorbiti dal proprio lavoro. Si potrebbe quasi dire che il workaholic considera il lunedì “il giorno in assoluto più piacevole della settimana”.

Le motivazioni che possono scatenare questo tipo di dipendenza sono diverse. I workaholic sono spesso cresciuti in un ambiente familiare in cui l’amore e l’approvazione da parte dei propri genitori era legato ai successi ottenuti. Oppure si sentivano spinti a fare sempre di più e meglio, per rispondere ad aspettative esagerate e irrealistiche. Insomma, l’unico modo per “valere qualcosa” risultava raggiungere una realizzazione professionale.

workaholic possono anche essere particolarmente ambiziosi: non si accontentano di un lavoro qualsiasi, perché la loro (bassa) autostima, è legata al successo e ai soldi. Tenersi sempre impegnati può nascondere l’esigenza di scappare da rapporti interpersonali, oppure di colmare un vuoto interiore, in modo da evitare di sentire e di pensare. E a pagarne le spese molto spesso sono i familiari e tutte le persone vicine al workaholic, che non sempre si rende conto di avere un problema.

Per ritrovare un equilibrio, e quindi uscire da questa dipendenza, il primo passo è abbandonare il perfezionismo e imparare a delegare, stabilendo alcuni limiti: per esempio, lavorare non più di 45 ore a settimana.
I rapporti sociali devono tornare ad avere spazio e importanza: può essere utile ritagliarsi del tempo di qualità da trascorrere con familiari e amici. Ma anche pianificare in anticipo il tempo libero ed evitare di parlare di lavoro a ogni occasione.
L’obiettivo da perseguire è dormire di più e meglio, concedersi i pasti seduti usufruendo di tutto il tempo necessario, dedicarsi a un’attività sportiva che possa rigenerare non solo il corpo, ma anche lo spirito

E’ possibile che tutto questo risulti particolarmente difficile pur essendoci la motivazione. In tal caso può essere d’aiuto un percorso psicologico che aiuti la persona ad affrontare le problematiche che sono alla base della dipendenza e riattivare un percorso di vita più sano ed equilibrato.

Nomofobia e FoMo: le nuove dipendenze degli adolescenti iperconnessi

Gli smartphone hanno reso i telefoni degli strumenti necessari e indispensabili alla nostra quotidianità.

Ma la facilità d’uso e la velocità con cui ciascuna azione può essere fatta possono renderci talmente dipendenti da questa tecnologia che il bisogno dello smartphone può sfociare in vere e proprie condizioni patologiche, soprattutto fra gli adolescenti .

Tra le sindromi ormai conosciute e studiate c’è la NOMOFOBIA ( “No mobile (phone) Fobia” o “Sindrome da Disconnessione”) che si manifesta con la paura di rimanere senza connessione o senza batteria in modo da non poter avere più accesso al cellulare.

E’ una condizione che puo’ causare stati di ansia, malessere, irrequietezza e aggressività fino a generare una vera e propria dipendenza patologica poiché non si riesce più a fare a meno di una connessione Internet.

Secondo David Greenfield, professore di psichiatria all’università del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul telefono cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e di interessante.

Il problema, però, è che non si può sapere in anticipo se accadrà veramente qualche cosa di bello, così si ha l’impulso di controllare in continuazione il cellulare innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo che continua a giocare con considerando le conseguenze a cui sta andando incontro.

La Nomofobia è una sindrome che si accompagna e che spesso è la conseguenza di un’altra condizione diffusa principalmente tra gli adolescenti e i giovani adulti: la FoMo

LA FOMO, che letteralmente significa Fear of missing out (Paura di essere tagliati fuori), è caratterizzata dall’ansia di essere tagliati fuori da esperienze gratificanti che fanno altre persone.

La  paura di essere esclusi è sempre esistita ed è strettamente collegata al bisogno di appartenenza che tutti abbiamo.

Tuttavia, con gli smartphone e soprattutto l’ubiquità dei social network, questo timore si amplifica. La facilità con cui possiamo vedere ciò che fanno gli altri può, attraverso il confronto può generare la paura di “non vivere al meglio” come gli altri.

Cosa stanno facendo? Qualcosa di interessante? Cosa mi sto perdendo? Perchè io non posso essere lì?

Queste sono solo alcune delle domande che può farsi chi tende a controllare spesso, a volte in maniera ossessiva, i social network (Facebook, Instagram, Twitter, ecc..), attivando così la necessità di rimanere costantemente legato al proprio smartphone, tablet o pc.

È una vera e propria forma di ansia sociale.

Per una persona insicura, insoddisfatta e con bassi livelli di autostima, vedere un “post” con tante persone, soprattutto coetanei che si divertono, potrebbe diventare qualcosa di inaccettabile, provocare risentimento verso se stessi o gli altri, insoddisfazione, agitazione e senso di incapacità.

Non parliamo di una patologia riconosciuta a livello clinico, ma la sua presenza può peggiorare una pregressa condizione di aspetti ansiosi/depressivi.

Soprattutto fra i adolescenti queste condizioni rischiano di compromettere un sano sviluppo delle capacità emotive e sociali.

E’ importante aiutare gli adolescenti ad avere un sano ed equilibrato rapporto con la tecnologia mobile sottolineando sempre l’importanza di sperimentarsi e nel mondo “reale”, fatto di scambi “dal vivo” confronti, sentimenti provati che permettano di compensare la velocità con cui si vivono le relazioni e le emozioni nel web.

Tossicodipendenza e terapia familiare

I percorsi di terapia familiare affrontano il problema della tossicodipendenza e anche di altre dipendenze, attraverso un livello di analisi e di intervento sistemico relazionale che ricerca nelle dinamiche relazionali della famiglia e nel suo ciclo vitale un senso per comprendere non solo la scelta del tossicodipendente ma anche le risorse utili e necessarie per un reale cambiamento.

Nelle famiglie  tossicodipendenti le relazioni tra i suoi componenti tendono a seguire copioni che si ripetono di frequente.

Spesso si assiste a dinamiche in cui la persona dipendente tende ad auto-biasimarsi per aver arrecato dolore alla famiglia, sperperando soldi, deluso chi lo amava mentre i familiari si interrogano su responsabilità, omissioni, errori.

Talvolta si assiste invece ad una deresponsabilizzazione, ad un reciproco incolparsi, al tentativo di porre il problema sempre nell’altro e fuori da sé.

Ma questo è solo la punta dell’iceberg di un processo che inizia prima della manifestazione del problema.

In un’ottica sistemico relazionale la famiglia è un sistema che ha, tra i suoi compiti di sviluppo quello di favorire lo sviluppo psicologico e sociale dei suoi membri. La famiglia segue un suo ciclo  passando attraverso diverse fasi ognuna caratterizzata da compiti evolutivi (per esempio ..fase della formazione della coppia, fase della nascita del primo figlio, ecc…, fino ad arrivare alla fase  della famiglia con adolescenti e la fase della famiglia come trampolino di lancio, ecc..).

Le crisi individuali ci sono e la famiglia in queste situazioni, attiva le risorse necessarie ad affrontare il problema. Ma a volte questo non succede. Ecco che il problema si manifesta attraverso una sintomatologia.

La comparsa dei sintomi è spesso correlabile, oltre che con crisi non affrontate a livello individuale, anche e soprattutto con fasi critiche o particolari momenti di passaggio nella vita familiare. Laddove si hanno difficoltà a ristrutturare modelli relazionali pre-esistenti per assolvere ai compiti evolutivi che impone la fase successiva ( d esempio cambiare il rapporto con i figli più grandi, oppure rinvigorire la relazione di coppia quando i figli escono di casa)oppure la famiglia si trova costretta ad affrontare eventi non prevedibili ( lutto, malattia..) il sistema si blocca.

La tossicodipendenza è un sintomo  e come tale ha un suo significato specifico all’ interno del sistema familiare in cui si manifesta. Consente alla famiglia di non doversi confrontare con nuove modalità di interazione, di evitare i cambiamenti e  di congelare i ruoli così come sono.

In presenza di una dipendenza quindi il consueto ciclo evolutivo si arresta. I modelli relazionali non cambiano e l’intera famiglia si trova a reiterare lo stesso schema generando disagi e sintomi.

Il dipendente diventa il  regista che, con il suo disagio, mette in luce l’impossibilità che l’intera famiglia ha di cambiare.

E così lui agisce il sintomo e  gli altri membri assumono e agiscono ruoli e funzioni complementari.

La funzione della tossicodipendenza del partner, fornisce le condizioni necessarie per raggiungere un congruo adattamento ad un copione relazionale logorante e distruttivo dove si alternano speranze di guarigione e promesse perennemente infrante, probabilmente già sperimentato a livello generazionale

La funzione della tossicodipendenza  dei genitori, permette loro di non congedarsi dalla propria funzione per continuare ad occuparsi del figlio; questi col suo fare uso di sostanze dichiara, sia sul piano personale che sociale, una certa irresponsabilità e quindi la necessità che ci sia qualcuno disponibile a proteggerlo da qualsiasi forma di autonomizzazione.

E se ci sono anche i fratelli agiscono la funzione del sintomo “tossicodipendenza”.

Infatti  nella maggior parte dei casi i fratelli sembrano assumere una posizione paradossale tra “competizione” e “collaborazione” con il paziente designato. Più precisamente è come se nella generazione filiale venisse messo in atto un “gioco” di alleanze (collaborazione) finalizzato a sequestrare i genitori “costringendoli” a continuare a fare i genitori, riuscendo a rimanere nel ruolo di figli senza limiti di tempo. Questo gioco implica però il protrarsi della rivalità tra fratelli per aggiudicarsi le attenzioni di mamma e papà (competizione).

È attraverso questi “intrecci familiari” che l’intero sistema “collabora” per manifestare la propria difficoltà nel riconoscersi in situazioni relazionali in grado di evolvere nel tempo.

La dipendenza quindi non è un attacco al sistema familiare , ma una sorta di protezione che il dipendente ha nei confronti dei membri della famiglia spaventati dalle sfide che il cambiamento impone loro.

E’ chiaro che non esiste un unico copione per spiegare la dipendenza da sostanze, ma queste dinamiche sono molto frequenti e spesso sono correlate alla modalità con cui si chiede aiuto.

Infatti anche la richiesta d’aiuto per un familiare con problemi di tossicodipendenza da parte della famiglia non è così scontata. A volte non si accettano i problemi dei figli/partner e si preferisce non voler sapere nulla. Il dolore diventa rifiuto e distanza.

Altre volte si minimizza perché si ha l’idea di riuscire ad aiutare il tossicodipendente, rafforzando così le dinamiche disfunzionali della famiglia stessa

Altre volte la richiesta è legata alla gestione del problema: la famiglia infatti non cerca risposte ma un apporto concreto immediato e il più efficace possibile.

Altre volte la famiglia di interroga su di sé e sulle proprie responsabilità.

A prescindere da quale sia il punto di partenza, l’ intervento terapeutico nei confronti della dipendenza deve agire a più livelli.

Ribadendo che la dipendenza non è il disagio, ma la conseguenza di una crisi sia individuale che familiare è fondamentale un’azione terapeutica sia rivolta alla persona che alla famiglia, offrendo così a tutti i componenti la possibilità di uscire dagli schemi rigidi e ripetitivi necessari a mantenere il proprio blocco evolutivo.

Lavorare sulle dinamiche relazionali intergenerazionali (come fa la terapia familare) aiuta il paziente e i familiari a capire il senso della tossicodipendenza e la sua funzione all’intero sistema permettendo alla famiglia di sciogliere quei nodi relazionali necessari,a rileggere le funzioni e le esigenze dei suoi membri e a ridare una spinta evolutiva a tutta la famiglia.

Alcol e adolescenza

L’uso di alcol è ampiamente diffuso tra i giovani. Le sue manifestazioni sono cambiate negli anni e lo scenario che oggi ci troviamo di fronte è diventato sempre più complesso.

L’età della prima bevuta si è abbassata notevolmente rispetto al passato: si beve già intorno agli 11 anni.

Tra i ragazzi tra gli 11 e i 15 anni la modalità più utilizzata è quella di un abuso di alcol concentrato in singole occasioni, in particolare, nei fine settimana: alle feste, durante gli aperitivi, in discoteca, raramente da soli. Ma in una stessa sera è possibile che si concentrino molte bevute.

Questo tipo di modalità è quella del binge drinking che letteralmente significa “abbuffata alcolica”.

Lo  scopo principale di queste bevute compulsive è la perdita di controllo,  l’ubriacatura. Spesso quindi la sostanza rappresenta solo un mezzo e non il fine.

La prima intossicazione alcolica si verifica di solito intorno ai 13 anni, l’abuso tende poi ad intensificarsi durante l’adolescenza mostrando un picco massimo tra i 18 e i 22 anni, con un tasso più elevato in particolare tra i giovani studenti universitari.

Altre modalità del bere non meno pericolose si sono diffuse già da un po’ tra gli adolescenti.

Il drelfie (da drunk + selfie) che consiste nel farsi fotografare ubriachi, nelle peggiori condizioni, mentre si vomita in uno stato di semi incoscienza. Le foto sono poi messe a disposizione del web a caccia di “like”.

Anche il pub crawl è una nuova moda rischiosa che consiste nel bere alcolici in diversi pub nell’arco di una sola serata, solitamente muovendosi a piedi da un locale all’altro. Normalmente il numero di pub visitati in un pub crawl è un multiplo di 3 fino ad un massimo di 18.

E per finire  l’eyeballing, alcol negli occhi. È la moda di portare l’imboccatura di una bottiglia (di vodka, ad esempio) a livello dell’occhio, come se la si stesse bevendo, per ottenere, si dice, effetti di euforia ed ebbrezza. Ma i ragazzi che praticano l’eyeballing ci arrivano già talmente ubriachi che è difficile credere che l’effetto sia reale, anche perché tale pratica provoca persino una temporanea cecità e può causare danni oculari permanenti.

Nel 2019 è stata effettuata una  ricerca dell’Ordine degli Psicologi del Lazio, effettuata su un campione di  518 studenti di età compresa tra i 13 e i 19 anni molto interessante.

Non si parla di vera e propria dipendenza ma piuttosto  di un utilizzo occasionale correlato a momenti sia positivi che negativi della vita dei ragazzi.

Una cattiva abitudine che produce alterazioni a livello neurologico, cardiaco, gastrointestinale, ematico, immunitario, endocrino e muscolo-scheletrico, gravi conseguenze che spesso i ragazzi neanche conoscono.

Nel breve termine le conseguenze e le azioni che possono mettere a rischio la vita, come il coma etilico o gli incidenti stradali rischiano di ledere l’identità dell’individuo, in un periodo della vita in cui questa stessa identità personale è in fase di formazione. 

Nel lungo termine invece l’alcol può diventare un vero e proprio regolatore emotivo, l’unico modo per “stare” in gruppo. Ogni situazione può dover essere mediata dall’alcol: si beve per dimenticare o per festeggiare: se una storia d’amore finisce oppure se la squadra del cuore vince una partita. Si beve quindi per sfuggire alle emozioni negative e per esaltare quelle positive senza conoscerne bene le pericolose conseguenze

Succede anche che, in maniera più intenzionale, gli adolescenti bevano per trasgredire pur conoscendone i rischi. In questo caso l’alcol, vietato fino ai 18 anni, diventa, prima di questa età, un comportamento di rottura, col quale l’adolescente sfida il rischio e il mondo adulto per trovare la sua identità.

La necessità di attuare strategie terapeutiche e di prevenzione è fuori discussione ma è importante che la prevenzione inizi in famiglia.

Credo siano molto interessanti  i 10 consigli ai genitori e ai familiari proposti dall’Osservatorio su fumo, alcol e droga dell’Istituto Superiore di Sanità, spunti di riflessione interessanti.

1) Provocateli: smontate con loro gli spot televisivi, analizzate i comportamenti socialmente accettati e diffusi, stimolateli a distinguersi dal branco e a essere informati.

2) Date un buon esempio: se consumate alcolici in casa, fate in modo che siano una componente ordinaria ma moderata dei pasti, senza eccessi. Dimostrate loro che ci si diverte e si sta bene anche senza alcol.

3) Informateli: parlate loro dell’alcol e dei possibili danni ad esso associati sin da bambini, non aspettate l’adolescenza, periodo di ribellione e sfida verso il “buon senso” degli adulti.

4) Distinguete: ci sono persone a cui l’alcol fa più male che ad altri. Sono i ragazzi con meno di 16 anni, ancora particolarmente vulnerabili, le femmine, che riescono a eliminare la metà della quantità di alcol che smaltisce un organismo maschile, chi deve guidare, che a qualsiasi età può diventare un pericolo mortale per sé e per gli altri.

5)  Allertate le ragazze: oltre al fatto, già citato, che le donne soffrono gli effetti negativi dell’alcol più dei maschi, vanno tenuti presenti i pericoli legati al genere femminile, come il rischio di gravidanze indesiderate o infezioni sessualmente trasmesse, oltre ai danni per il feto in una futura maternità.

6) Educateli alla differenza fra uso e abuso: assicuratevi che abbiano presenti i rischi legati alla perdita di controllo e all’ alterazione delle proprie capacità, alla guida, in un locale, di fronte al giudizio di estranei e amici.

7)  Insegnate loro a leggere le etichette: che sappiano cos’è la gradazione alcolica e diventino consumatori consapevoli.

8) Fate loro sapere che l’alcol dà dipendenza.

9) Offrite loro la possibilità di divertirsi con gli amici, a casa e fuori, imparando che esiste una convivialità analcolica.

10)  Vigilate su di loro.  Non potrete proteggerli 24 ore su 24, ma tenete gli occhi e i canali di comunicazione sempre aperti.

Spesso è attraverso i genitori che si riesce ad aiutare l’adolescente in difficoltà con delle consulenze che permettano loro di comprendere meglio le dinamiche e il modo di supportare il proprio figlio. Altre volte la richiesta di aiuto diventa il passaggio necessario per un intervento mirato sul ragazzo/a. In ogni caso un’intervento precoce è fondamentale per evitare che al problema dell’alcol ne seguano ancora altri più dannosi per la crescita psicologica dell’adolescente.

Cocaina e comportamento

“Come posso capire se il mio compagno, mia figlia o un mio amico fa uso di cocaina?”

“Quali sono i comportamenti e gli atteggiamenti tipici del cocainomane che devo osservare?”

Riconoscere una persona che fa uso di cocaina non è facile né immediato soprattutto se non la conosciamo bene. Così di fronte a comportamenti sospetti spesso i familiari, amici e conoscenti non sanno cosa pensare o come comportarsi.

Il punto di vista privilegiato è l’osservazione dei comportamenti e dei cambiamenti della persona che temiamo ne faccia uso.

Tra gli effetti a breve termine è possibile osservare:

  • sensazione di aumento delle percezioni;
  • distorsione cognitiva e delle capacità recettive;
  • accentuazione della reattività fisica e mentale;
  • riduzione del sonno e dell’appetito;
  • euforia;
  • maggiore socievolezza;
  • facilità di relazione ed infaticabilità.

Tra quelli a lungo termine associati al comportamento della persona possiamo notare:

  • Minore interesse verso il mondo esterno
  • Sbalzi di umore, aggressività, ricerca di denaro
  • Smarrimento, isolamento, confusione mentale
  • Perdita di interesse per gli stimoli naturali

La cocaina può far insorgere paranoie, manie di persecuzione e disturbi psichiatrici di vario genere, anche se prima dell’uso non c’era alcuna problematica.

La sostanza altera il funzionamento cerebrale quindi la percezione del mondo e i comportamenti della persona.
Infatti è possibile  notare  sbalzi di umore imprevedibili, aggressività e scatti di violenza immotivati oppure chiusura e mancanza di attenzione verso gli altri.

E’ possibile notare giovialità e allegria , ma al tempo stesso confusione  e incapacità  di formulare pensieri coerenti.
Potrebbero anche verificarsi agiti che non si spiegano in modo in altro modo: ad esempio, una persona nota per essere corretta ed onesta, che arriva a rubare denaro o inizia a raccontare tante bugie.

Anche pensare alla possibili cause e osservare se la persona, che temiamo possa far uso di cocaina, si trovi in una di queste situazioni di vulnerabilità può essere una chiave.

  • Ricercare un eccitamento che non si riesce a ottenere dagli stimoli della vita quotidiana.
  • Essere in preda a sentimenti negativi, o relazioni difficili: l’uso di cocaina può apparire allora come una via di fuga.
  • Cercare in maniera erronea un aiuto per avere un rendimento maggiore nello studio e nel lavoro.
  • Rispondere ad un senso di inadeguatezza o tentare di migliorare il proprio status di fronte agli altri.
  • Tentare di allontanare una depressione o dimenticare un trauma mai completamente superato.

La cocaina è una sostanza subdola, crea dipendenza psicologica fin da subito. Di solito chi la utilizza   nega, a sé stesso e agli altri, di avere un grave problema.

Se si pensa o si ha  il sospetto che un familiare  o  un amico  faccia uso di cocaina è importante chiedere aiuto quanto prima. Rivolgendosi ad un professionista delle dipendenze sarà possibile essere guidati e supportati nell’aiutare la persona a prendere consapevolezza del suo problema.

Adolescenti e relazioni ai tempi dei social

Internet, gli smartphone, i social network sono degli strumenti molto utili per tanti motivi: le opportunità di apprendimento si sono moltiplicate praticamente all’infinito, così come le occasioni di confronto e di scoperta di mondi, culture e soluzioni diverse dalle proprie. La rete offre la possibilità di restare in contatto con persone lontane, di condividere risorse, quindi di essere una risorsa anche per le relazioni.

I rischi a cui espongono non sono da sottovalutare ma dipendono in gran parte da come li si utilizza.

Il problema spesso non è l’uso dei social network e delle chat, ma e soprattutto per gli adolescenti quando diventano praticamente l’unico modo di stare in relazione.

Per alcuni adolescenti, infatti, essi rappresentano una tentazione irresistibile nella misura in cui, mettendo una distanza fisica tra sé e l’altro, creano l’illusione di poterli liberare da una gran parte dei problemi relazionali tipici della loro età: il bisogno di appartenere e di essere approvati, la paura di non piacere, il terrore del rifiuto. L’altro non mi vede, quindi posso mostrargli solo le parti di me che ritengo accettabili, e io non vedo l’altro, perciò posso osare di più.

Molte di queste relazioni possono essere del tutto virtuali, cioè non corrispondere a una conoscenza faccia a faccia, fisica. In questi casi, tuttavia, virtuale è sinonimo – e non contrario – di reale: si tratta di vere e proprie amicizie, a volte anche molto profonde poiché ci si sente più liberi di aprirsi; non c’è il rischio che poi l’amico o l’amica tradisca la fiducia e tutta la classe venga a sapere i proprio segreti. Si tratta di relazioni vere, quindi, ma con più ampie possibilità di mantenerne il controllo: ti mostro chi sono veramente, ma solo fino a un certo punto, solo fino a dove voglio io.

Da una parte può essere un modo sano di sperimentarsi nelle relazioni e acquisire una maggiore sicurezza aumentando l’autostima se poi ci si dà la possibilità di metterla  in gioco in contesti fuori rete.

Dall’altra, però, si può trattare di un modo poco efficace per gestire la paura di mostrare se stessi, perché nemmeno centinaia di km di distanza possono sciogliere il dubbio di venire rifiutati se l’altro scoprisse veramente come siamo fatti, se questo è quello che si pensa di se stessi. Questo succede quando non c’è una reale consapevolezza che gestire le relazioni in questo modo non sia completamente realistico e soprattutto crei un divario spesso profondo tra ciò che siamo e quello che vorremmo essere.

La distanza permette di tenere a bada le frustrazioni, ma fino a un certo punto: cosa succederà quando ci troveremo a tu per tu? Cosa diremo? Ci piacerà passare del tempo assieme? Per un ragazzo comunicare online può diventare più gratificante di uscire insieme, perché l’imbarazzo, la noia, la paura vengono minimizzati. Questo tipo di interazioni, tuttavia, non riesce a soddisfare pienamente il bisogno di vicinanza e di relazione che ci caratterizza in quanto esseri umani: il paradosso, per alcuni adolescenti, sembra essere che più questo bisogno cresce, più cercano di appagarlo aumentando il tempo passato sui social o in chat, più aumenta l’insoddisfazione. Quasi sempre questo circolo vizioso avviene a un basso livello di consapevolezza, favorendo una vera e propria dipendenza da internet.

Cosa possono fare gli adulti?

Proibire non serve a molto, soprattutto per i ragazzi più grandi. Quello che si può fare, sicuramente in modo più lento e con più fatica da parte delle famiglie, è educare i bambini e i ragazzi a un uso consapevole e intelligente della tecnologia fin dalla più tenera età.

Questo significa, in primo luogo, dare l’esempio. Inutile poi proibire l’uso del telefonino ai ragazzi se si fa fatica ad alzare gli occhi dal proprio. È difficile insegnare a comunicare se non lo si fa in prima persona, e lo è ancora di più aiutare i propri figli a svincolarsi dal bisogno di approvazione altrui se si dipende dal proprio successo “social”.

Non smettere di ascoltare e di parlare con i bambini e i ragazzi, per quanto sia complesso farlo durante il periodo adolescenziale. Lo smartphone, internet, i social network di per sé non sono negativi: sono degli strumenti che, qualora ci sia un disagio o una fragilità personale, possono fare da veicolo per una sua manifestazione. Il focus è, prima di tutto, aiutare il ragazzo a riconoscere la propria difficoltà, sostenendolo nell’esplorare ciò che lo blocca e le possibili soluzioni alternative al telefonino